Wednesday, September 28, 2005

I limiti della ragione, imposti alla ragione da Kant

1) La "critica" di I. Kant alla "ragione pura" del razionalismo

La Critica della ragion pura di Kant affronta il razionalismo, soprattutto la pretesa di poter conoscere Dio e le sue idee, le essenze delle cose. Questa critica è parzialmente giusta: concerne l'oggetto della metafisica che diventa nel razionalismo Dio stesso. Infatti in Descartes, Spinoza, Leibniz, Wolff e Baumgarten la metafisica assume il compito di pensare le idee di Dio per dedurre da esse le cose di questo mondo fino alla loro esistenza, tentando di convertire le contingenti "verità di fatto" in necessarie "verità di ragione". In tal modo, come critica Kant, questa metafisica si muove fra soli concetti astratti, senza appoggio sul mondo empirico.[1] Il compito razionalistico attribuito alla ragione sorpassa la sua capacità conoscitiva.
Si potrebbe sentire forse un eco da un testo di Platone, in Respublica,[2] secondo cui la sua scienza "dialettica", quando arrivata al primo principio, procede con soli concetti dal principio alle idee (le essenze delle cose) perché non ha più un altro presupposto ma è, al contrario, il presupposto di tutte le idee. Tuttavia, la metafisica tradizionale, provenendo da Platone e Aristotele, è molto diversa da quella moderna razionalistica, perché parte dalle cose di questo mondo sensibile, con il loro essere contingente causato per cercare le loro cause essenziali intelligibili. Solo, alla fine, essa arriva con argomenti dimostrativi a una prima causa trascendente, identificata con Dio.
Platone pone anche le essenze delle cose, le cosidd. idee, come trascendenti, "separate" dalle cose; il che era un errore, che già Aristotele poi corregge. Ma ambedue insegnano che le cose hanno le loro essenze e arrivano alla prima causa trascendente. Per ambedue l'oggetto primario della metafisica sono le cose del mondo, con le loro essenze.
La critica di Kant, sebbene affrontando soltanto il razionalismo moderno, pretende, però, di essere valida contro la metafisica in generale, non rispettando la diversità importante – or ora da noi considerata – tra la metafisica moderna e quella tradizionale, di origine antica e medievale, di cui Kant non aveva una conoscenza più vicina e accurata.

2) I limiti di conoscenza nel senso tradizionale

Nella filosofia antica i Sofisti discutevano sui limiti della conoscenza umana per finire nel relativismo o, più radicalmente, nell'agnosticismo, come in Gorgia di Leontini. Platone si è confrontato con le tesi dei Sofisti e le loro estreme conseguenze. Poi anche Aristotele.
Oggi l'opinione predomina che solo con Kant si sia sviluppata una filosofia "critica", a differenza della metafisica antica e medievale che in modo "ingenuo" abbia fatto enunciazioni sull'essere del reale, senza riflessione critica su esse; con l'unica eccezione dei Sofisti che erano i veri precursori di Descartes e di Kant.
J. Maréchal[3] espone la storia della filosofia antica unilateralmente su questa versante: Dal punto di vista di Kant egli lascia cominciare la filosofia antica con i Sofisti, considerando la filosofia dei Presocratici ancora come mitologica. Tuttavia, non si può ignorare gli inizi della filosofia della natura in Eraclito, Empedocle, Anassagora e Democrito, neppure dell'ontologia in Parmenide. Platone e Aristotele si sono riallacciati ad essi e hanno confutato lo scetticismo sofistico in modo molto valido.
Importante è che ambedue sono consapevoli dei limiti della conoscenza umana. Non è giusto dare solo a Kant il merito di essere "critico" e accusare gli anteriori come "dogmatici". Del resto, proprio in Kant si trova tanto di dogmatico. Non occorre guardare in un autore soltanto ciò che egli dice ma ciò che egli dà.
Sia per Platone che per Aristotele la prima causa trascendente, cui arriva la loro metafisica, sorpassa la conoscenza dell'intelletto umano; infatti Platone la determina come "idea delle idee". Aristotele insegna che la prima causa "nella sua essenza è il suo atto",[4] cioè identicamente il suo essere di piena attualità causale, mentre l'intelletto umano conosce l'essere e l'essenza soltanto come due aspetti diversi nelle cose del mondo. Di fatto le cose manifestano il loro essere come essere causato, cioè come "esistenza" (che significa: venire fuori da una causa), a differenza della loro essenza (che concerne le cause).
Visto più da vicino, Aristotele[5] distingue due limiti della conoscenza umana, uno dalla parte dell'oggetto, e uno dalla parte del soggetto: i limiti oggettivi si effettuano in due modi, o perché l'oggetto è sopra-intelligibile, cioè Dio, che trascende la nostra conoscenza diretta, o perché l'oggetto è sotto-intelligibile, cioè la materia prima che per definizione è il sostrato per tutte le forme conoscibili. Secondo Aristotele essa non esiste separatamente dalle forme, ma è raggiungibile dall'intelletto solo indirettamente, per reductionem, se si toglie ogni forma.[6]
A questi limiti oggettivi corrispondono due limiti soggettivi in quanto l'intelletto non è capace conoscere adeguatamente né il sopra-intelligibile Dio, né la sotto-intelligibile materia prima. Infatti, l'intelletto differisce dalla facoltà sensitiva, avendo come oggetto l'intelligible, cioè l'essenziale delle cose empiriche che è molto più che la loro materia. L'intelletto si trova, dunque, al di sopra della materia ma al di sotto della sostanza divina che è trascendente al mondo empirico e all'intelletto. Si noti che la tradizione non trascura il limite della conoscenza umana dalla parte del soggetto / dell'intelletto e lo vede in connessione con il limite oggettivo imposto dalla natura delle stesse cose.

3) I limiti di conoscenza nel senso moderno empiristico

Nell'empirismo moderno il limite della conoscenza umana ha ancora un significato reale almeno in quanto viene imposto alla ragione dagli oggetti. Certo si tratta di una realtà ridotta perché le cose della natura, secondo l'empirista, sono soltanto fenomeni, non cose in sé. L'unica cosa sostanziale, in sé sussistente, sarebbe il corpo o la materia dietro i fenomeni. A questo empirismo delle cose corrisponde un empirismo della conoscenza che la riduce al mondo empirico, ristretta nei limiti dell'intuizione sensitiva. Ciò che non può apparire in essa, non può essere dato come oggetto all'intelletto.
J. Locke[7] e D. Hume[8] hanno elaborato l'empirismo gnoseologico in una completa teoria, esponendo gli elementi dai quali la conoscenza si costituisce: cioè "impressioni" dalle percezioni e "idee" ossia concetti formati da quelle. Ambedue negano, contro ogni "platonismo", le cosidd. "idee innate", in favore dell'astrazione "aristotelica".[9]
Ora, a mio avviso, la critica alla teoria delle idee innate è giusta, la quale, però, come si presenta nei due pensatori, non è più di Platone; infatti, questi non ha insegnato che vi siano idee nell'anima bensì ha supposto le idee come oggetti reali separati dalle cose e dal soggetto / dall'intelletto, nel quale vi sono soltanto reminiscenze delle idee (viste nell'altro mondo anteriormente).
Riguardo alla teoria aristotelico-tomista dell'astrazione è da evitare un grave frainteso moderno, di origine empiristica, cioè che l'unica fonte della conoscenza umana fossero i dati sensibili delle cose empiriche. In verità, però, la comprensione dell'essere delle cose e la riflessione ontologica su di esso non risulta dall'astrazione bensì è il suo presupposto. L'intelletto comprende l'aspetto formale dell'essere delle cose immediatamente e, stando in questo contatto ontologico, comincia a ricavare dai dati materiali sensibili delle cose man mano i loro dati intelligibili essenziali, facendo astrazione dal materiale concreto.
Il presupposto per ogni conoscenza empirica è non solo l'essere delle cose ma anche (anzi di più) l'essere dello stesso intelletto. In tal senso, Leibniz ha superato l'empirismo di J. Locke. Alla tesi "aristotelica" di quest'ultimo – cioè che nihil est in intellectu quod non prius fuerit in sensibus, Leibniz[10] ha risposto genialmente: nisi intellectus ipse.

4) I limiti di conoscenza secondo Kant: l'autolimitazione della ragione, imposta da Kant

Kant, come è noto, combatte l'empirismo inglese ma assume un presupposto empiristico cioè che la nostra conoscenza sia limitata al mondo empirico delle cose ridotte a fenomeni. Tuttavia questo limite – per l'empirista ancora oggettivo – cambia Kant in un limite soggettivo, in seguito della sua svolta "copernicana" trascendentalistica. Infatti Kant combatte anche il razionalismo, assumendo pure da questo un presupposto cioè che le conoscenze contengano oltre gli elementi "materiali", percepibili a posteriori, anche quelli "formali", a priori: le forme dell'intuizione sensitiva, spazio e tempo, nonché le forme categoriali inerenti nell'intendimento e la forma della coscienza trascendentale.
Tuttavia, a mio parere queste assunzioni di Kant sono dogmatiche e non confermate dalla nostra semplice autocoscienza. Chi non vede che l'assunzione delle forme catagoriali nell'intendimento è simile all'assunzione di idee innate?! Altrettanto la dottrina kantiana delle "idee" dell'anima, del mondo e di Dio è immanentistica. Nel trascendentalismo kantiano i componenti materiali e formali delle cose – secondo la tradizionale filosofia della natura si tratta delle loro cause materiali e formali – vengono trasferiti nel soggetto e diventano condizioni materiali e formali di ogni conoscenza che costituirebbero le cose qua oggetti-fenomeni. Che strano naturalismo nella gnoseologia di Kant!
In tal modo il "limite" (nel senso tradizionale) oggettivo che pongono le cose alla nostra conoscenza e alla nostra ragione diventa adesso (nel senso trascendentalistico) una "limitazione" posta dalla ragione ossia dall'intelletto alle cose qua oggetti-fenomeni. Ciò cambia totalmente il senso di "limite": questo non è più un dato oggettivo nelle cose, che costringe l'intelletto di esaminare criticamente la sua conoscenza limitata, nonché le sue forze conoscitive limitate, bensì diventa una attività dell'intelletto costitutiva degli oggetti. Il conoscere non è più un venir determinato dalle cose, ma diventa adesso un determinarle. Dal punto di vista tradizionale possiamo costatare che in Kant manca proprio l'auto-critica della ragione che egli voleva intraprendere. Invece di riconoscere il limite delle sue forze, la ragione le sovra-estima come se essa possa costituire il mondo delle cose, qua fenomeni. In tal modo il soggetto subentra al posto delle cause costitutive delle cose stesse, quelle immanenti, e quella trascendente divina. La giusta critica kantiana al razionalismo, che pretende di compiere i pensieri di Dio, sostituisce falsamente la ragione divina con quella umana, rivendicandole la capacità di costituire il mondo empirico. È il filosofo Kant che, promettendo di sottomettere criticamente la ragione ai limiti della sua conoscenza (metafisica), la mette, dogmaticamente, in una posizione assoluta, dotata della capacità di limitare ossia di costituire e determinare l'oggetto nonché la conoscenza (trascendentalistica). In tal modo Kant sottomette la ragione a limiti che esso stesso le impone – a nome della ragione!
Dal trascendentalismo proviene, poi, l'idealismo che esagera di più ancora l'attività della ragione ossia dello spirito dell'uomo, facendolo parte dell'attività dello spirito divino / del "Weltgeist", il quale si sviluppa in forma di auto-limitazione creativa verso il mondo e l'uomo. La dottrina teologica della tradizione secondo cui la conoscenza di Dio è simultaneamente creativa delle cose, viene secolarizzata, per così dire, e trasferita alla conoscenza nell'uomo che adesso fa parte dell'attività creativa del Weltgeist. Visto più da vicino, però, si palesa la grande differenza tra entrambe le dottrine: quella tradizionale su Dio, nel quale conoscere e creare coincidono, non risulta dalla riflessione gnoseologica dell'intelletto umano sulla sua attività conoscitiva, ma da una riflessione metafisica sulla sostanza dell'intelletto divino; infatti all'intelletto umano manca completamente l'esperienza di una coincidenza del pensare e del creare; può soltanto concluderla rispetto all'intelletto divino.

5) Presa di posizione riguardo alle cosidd. "antinomie"

Kant vede una conferma sicura della sua critica a ogni conoscenza metafisica nel fatto delle cosidd. "antinomie" cosmologiche, esposte nella terza parte della Critica della ragion pura.[11] L'opera vuole proprio mostrare perché queste non sono risolubili e lo spiega così che sono causate da un dissenso tra la facoltà sensitiva e quella intellettiva; si esprime nelle tesi e le antitesi di ogni antinomia in cui si articolano i due indirizzi opposti del razionalismo e dell'empirismo; infatti le tesi vengono rappresentate dal razionalista, le antitesi dall'empirista.
Contro la dottrina kantiana delle antinomie sorgono, a mio avviso, almeno due obiezioni. La prima spetta alla metodologia: giacché le cosidd. antinomie cosmologiche concernono un problema dal lato degli oggetti, dal mondo fisico, una possibile risoluzione deve essere cercata da questo lato, non dal lato del soggetto, assumendo dogmaticamente un dissenso tra sensitività ed intelletto di cui noi nella nostra esperienza non sappiamo nulla. In verità, siamo consapevoli soltanto della differenza essenziale tra le due facoltà che, però, consuonano in una collaborazione meravigliosa.[12]
L'altra obiezione riguarda gli argomenti delle antinomie che, a mio parere, sono ben risolubili se si toglie gli errori unilaterali delle posizioni razionalistica e quella empiristica che si rispecchiano nelle tesi e nelle antitesi. Kant, invece, assumendo da entrambe un presupposto razionalistico e uno empiristico, con i loro errori, combina nel suo trascendentalismo entrambe e rafforza gli errori. Vediamo più da vicino la prima antinomia: la tesi dice che il mondo abbia un inizio nel tempo e sia rinchiuso nei limiti dello spazio;[13] l'antitesi invece dice che il mondo non abbia un inizio e non sia rinchiuso in limiti, ma si mostri infinito nel tempo e nello spazio.[14]
Gli argomenti di entrambe non procedono in modo di dimostrazione diretta ma ciascuna difende la propria posizione indirettamente per riduzione all'assurdo della posizione opposta.
Il razionalista metafisico confuta l'antitesi empiristica cioè che il mondo sia divisibile, in tempo e spazio, nelle sue parti all'infinito, argomentando che in tal modo non si arriverebbe mai a un totale che si rappresenta come mondo. Tuttavia, questo argomento non è costringente perché la teoria fisica del calcolo infinitesimale riconosce anche un infinito entro il finito, quando una serie infinitesimale va verso un valore limite determinato. Inoltre obietterei soprattutto che l'argomento non difende la posizione metafisica dell'unità sostanziale del mondo intero, neppure quella di ogni cosa del mondo, perché questa è ben diversa da un totale quantitativo. Infatti, secondo la dottrina tradizionale dei cosidd. trascendentali, ogni cosa è un ente sostanziale, uno, conoscibile, reale e buono cosicché queste caratteristiche si trovano in primo luogo nella prima categoria della sostanza, non in quella accidentale del quantitativo, che i fisici misurano, e sono intelligibili, non sensibili, cioè vengono comprese soltanto dall'intelletto nelle stesse cose empiriche perché connesse con il loro essere.
L'errore di considerare "l'ente" come dato sensibile si trova già nell'antichità quando Eraclito ha negato l'ente – nella costanza delle cose sensibili – come meramente apparenti ai sensi, mentre in verità le cose sono in flusso incessante di cambiamenti. Al contrario, Parmenide scopre, per la prima volta, che l'essere delle cose secondo cui vengono considerati come "ente" è intelligibile, non più sensibile, e nega ogni cambiamento. Vorrei annotare che dopo Parmenide gli atomisti, come anche i Sofisti Protagora e Gorgia, parlano sì degli "enti" ma considerano le cose empiriche in quanto qualcosa sensibile, non in quanto intelligibile! Democrito intende falsamente gli atomi e il vuoto come "ente" e "non ente". Protagora proclama l'uomo come "misura di tutto, degli enti che essi sono, e degli non enti che essi non sono", ma considera le cose nondimeno soltanto in quanto sensibili, come mostra il suo esempio con l'aria che appare all'uno caldo, all'altro freddo, e così via. La proposizione dell'uomo come misura delle cose si riferisce alla percezione sensitiva e finisce in un relativismo sensualistico ossia empiristico.
Certamente, una metafisica delle sostanze la cui unità viene compresa come totalità materiale misurabile è aperta alla critica empiristica esposta da Kant nell'argomento dell'antitesi cioè che ogni totalità determinata in spazio e tempo sia divisibile all'in(de)finito cosicché anche il mondo intero perde la sua unità come i metafisici l'intendono. Tuttavia, l'argomento non vale dinanzi alla metafisica tradizionale che si riferisce alle cose empiriche non in quanto sensibili bensì in quanto intelligibili perché si avverano complessi, soprattutto le cose naturali viventi; infatti sono costituite da cause materiali e cause formali. Anche se la loro materia fosse divisibile all'in(de)finito – e potentialiter lo è per Aristotele – l'unità sostanziale di ciascuna cosa, dovuta alla loro causa formale. Negli animali questa è un principio vitale (non più materiale) che unisce gli elementi a un organismo vivente.
Secondo Kant l'essere sostanziale si appiattisce alla permanenza spazio-temporale degli oggetti qua fenomeni –– il che è inaccettabile.

6) Conclusione

Concludendo le mie osservazioni sul limite della conoscenza secondo Kant vorrei rilevare il problema principale che si palesa, peraltro, anche in un recente trattato di Andrea Gentile sullo stesso tema.[15]
L'autore interpreta la Critica della ragion pura in modo tale che Kant ci conduce "ai confini della ragione" con le dottrine delle condizioni apriori dell'esperienza, che sono le forme di spazio e di tempo dell'intuizione sensitiva, le categorie dell'intendimento e la forma dell' io-penso della coscienza trascendentale. Gentile ripropone questa teoria kantiana dell'esperienza[16] e ribadisce con Kant che la ragione, nel tentativo di raggiungere conoscenze apriori universali, può raggiungerle soltanto entro i limiti del mondo empirico.
I limiti della conoscenza razionale apriori è, come il suo fondamento, l'ambito limitato di una possibile esperienza. Perciò la critica kantiana alle tre discipline del razionalismo: psicologia, cosmologia e teologia, consiste principalmente in ciò che queste trattano di tre sostanze, le quali non possono essere date in una possibile esperienza, nell'intuizione sensitiva.
Di fatto, Kant voleva difendere la fisica di I. Newton, contro l'empirismo di D. Hume che nega ogni conoscenza apriori scientifica, cioè universale e necessaria. Soprattutto i ragionamenti scientifici che combinare effetti con cause, Hume ha spiegato con il costume degli uomini di fare tali combinazioni.
Kant invece spiega il ragionamento scientifica assumendo nell'intendimento la categoria della causalità. Tuttavia, la critica di Kant a Hume non è molto forte, sostituendo soltanto la tesi di Hume del costume con la tesi della categoria della causalità nell'intendimento.
A mio parere, Kant ci conduce a confini della ragione, imposti da lui stesso, sotto l'influsso dell'empirismo. Infatti, la limitazione della conoscenza razionale entro l'ambito dell'esperienza, basata sull'intuizione sensitiva, risulta da due premesse em-piristiche cioè 1° che l'essere delle cose è un dato sensibile – cui corrisponde l'intuizione sensitiva – e 2° che l'uomo non dispone di una intuizione intellettiva. Perciò né l'anima, né Dio possono diventare oggetto della conoscenza razionale. Tuttavia, entrambe le premesse contraddicono la nostra semplice coscienza naturale, la quale è un atto dell'intelletto e alla quale le cose nel loro essere sono date, sia gli oggetti esterni, sia l'intelletto, come soggetto, che è dato a se stesso. Anche se è vero che non disponiamo di una intuizione intellettiva dell'essenza delle cose e di noi stessi, della nostra anima o del nostro intelletto,[17] nondimeno le cose esterne sono presenti all'intelletto, nella sua coscienza, e l'intelletto a se stesso, nell'autocoscienza.
Questa autopresenza dell'intelletto, consapevole di sé, è un presupposto dell'esperienza stessa, come Leibniz, nella sua risposta a Locke, ha rilevato giustamente: nisi intellectus ipse (si veda sopra). Per Kant, che assume quelle premesse erronee dell'empirismo, l'intelletto non è più dato a se stesso, ma può solamente pensare se stesso e pensarsi rinchiuso entro limiti di una esperienza, basata sull'intuizione sensitiva.
In conclusione, la critica gnoseologica di Kant non rileva la limitatezza propria della ragione per sua natura, invece le impone una limitatezza impropria. Quest'ultima che risulta per Kant inavvertitamente da una premessa empiristica vieta alla ragione di acquisire conoscenze su se stessa o sull'anima, nonché sull'essenza delle cose, con le cause immanenti e sulla prima causa trascendente. La vera critica gnoseologica si trova nella tradizione che giustifica la possibilità alla ragione di acquisire tale conoscenze metafisiche ma rileva anche la loro limitatezza. Particolarmente rispetto alla prima causa trascendente (divina) la ragione arriva solo con conclusioni induttive e in modo analogo inadeguato.
La critica kantiana alla metafisica razionalistica suona brillante e convincente perché insiste rigorosamente nel fondamento empirico della conoscenza scientifica, mentre il razionalismo sembra averlo perduto nelle sue discipline metafisiche speciali di psicologia, cosmologia e teologia. Kant critica che la psicologia razionale abbia trattato dell'anima come oggetto "indipendente da ogni esperienza"[18] e abbia sviluppato una dottrina con meri concetti universali, girando in "idee strane", letteralmente in "ragnatele del cervello" (Hirngespinste). Tuttavia ciò che Kant intende con "esperienza" è una esperienza meramente sensibile, condizionata dalla sua teoria trascendentalista, che esclude ogni esperienza intellettuale, limitando le categorie dell'intendimento a ciò che è dato nell'intuizione sensitiva esterna ed interna. La mia obiezione a Kant non è che egli ha rilevato condizioni dell'esperienza apriori nel soggetto – per superare l'empirismo – ma che queste condizioni riducono l'esperienza a oggetti-fenomeni costituiti dal soggetto – per superare il razionalismo. Trovi-amo invece nella metafisica tradizionale, con le sue discipline speciali, una migliore alternativa nel rilevare sì una condizione apriori dell'esperienza nel soggetto, non facendo però dell'essere delle cose empiriche un dato sensibile, ma lo riconosce come intelligibile, cioè come dato alla coscienza dell'intelletto. Quest'ultimo è dato anche a se stesso, nell'autocoscienza (cfr. Leibniz: nisi intellectus ipse).
Al contrario, in Kant avviene una scissione dogmatica inaccettabile tra l'essere sensibile e l'essere trascendentale degli oggetti, tra oggetto-fenomeno e oggetto logico-trascendentale,[19] tra coscienza sensibile e coscienza trascendentale, tra soggetto empirico e soggetto intellettuale trascendentale. Secondo Kant il soggetto trascendentale non è dato direttamente a se stesso, ma solo pensabile come esistente il che contraddice, però, la semplice autocoscienza del nostro intelletto che è presente a se stesso. Ciò conferma pure la grande tradizione, sia platonica agostiniana, sia aristotelica tomista, che si basano su questa coscienza naturale realistica. L'espressione di "coscienza sensibile", provenuta dall'empirismo e assunta da Kant, è contraddittoria in se stessa; infatti la nostra coscienza naturale della realtà è un "con-scire" (quindi deriva con-scientia) o con-sapere (con semplice intuizione) dell'essere delle cose che accompagna ogni esperienza del loro contenuto. Questo con-sapere formale è un atto dell'intelletto, non dei sensi.[20]
Come la critica kantiana alla psicologia razionale così anche quella alla teologia, cioè alle prove di esistenza di Dio, insiste soprattutto nella limitatezza della conoscenza razionale agli oggetti dell'esperienza basata sull'intuizione sensitiva. Poiché Dio è invisibile si esclude già a limine ogni conoscenza su di Lui. Inoltre, Kant si occupa soltanto delle dimostrazioni apriori deduttive del razionalismo, ignorando quelle aposteriori induttive della tradizione aristotelico-tomista. Queste partono da certe caratteristiche delle cose empiriche del mondo per concludere alla loro prima causa trascendente, identificata con Dio. Per evitare i fraintesi, accaduti nei tempi moderni, occorre intendere quelle caratteristiche sotto l'aspetto dell'essere delle cose mondane. Infatti nella prima via di s. Tommaso d'Aquino il movimento delle cose è un modo difettivo del loro essere, come passaggio dall'essere potenziale a quello attuale. Altrettanto nella terza via che tratta dell'essere contingente potenziale delle cose e conclude dalla necessità relativa del loro essere a quella assoluta della prima causa. La quarta via parte dall'essere meno e più perfetto, in analogia a una prima causa come primo analogato. La quinta via riguarda l'essere delle cose naturali nella sua finalità ossia bontà che rinvia a una prima causa come fine o bene ultimo. È chiaro che le dimostrazioni arrivano alla prima causa trascendente partendo dalle caratteristiche trascendentali delle cose mondane. Ma questo aspetto del "trascendentale" ontologico Kant ha perduto e sostituito con il suo "trascendentale" nel nuovo modo soggettivistico.


[1] Imm. Kant, Critica della ragion pura, B XV, si esprime nella Prefazione alla seconda edizione sulla metafisica così che essa non è proceduta, come le altre scienze, appoggiandosi sull'esperienza ma ha camminato a tastoni e, "il che è il peggio, tra meri concetti."

[2] Platone, Resp. VI, 511b, spiegando la sua scienza di "Dialettica", la quale "…arrivando al principio che è senza ipotesi deve prenderlo e in tal modo, attenendosi a tutto ciò che ne dipende, scendere senza servirsi di alcun sensibile ma soltanto delle idee di per sé e facendo così finire in idee."

[3] Cfr. la sua nota opera: J. Maréchal, Le point de départ de la métaphysique, 5 vol., Paris 1944.

[4] Aristotele, Metaph.. XII, 1071b 19-20.

[5] Ibid., II, 993b 7 ss.

[6] Si veda Aristotele, De gener. et corr. II. Cfr. il mio commento in: Beiträge yu Aristoteles' Naturphilosophie, Amsterdam (Rodopi) 1995.

[7] John Locke, An essay concerning human understanding, 2 vol., del 1690.

[8] David Hume, Enquiries concerning the human understanding and concerning the principles of morals, del 1777.

[9] Si veda anche la lucida presentazione dell'epoca moderna dell'empirismo, del razionalismo e del kantianismo in Antonio Livi: La filosofia e la sua storia, vol II: L'ottocento, Roma (Ed. Dante Alligh.) 1999.

[10] G.W. Leibniz, Nouveaux essais sur l'entendement humain, del 1704 (pubblicati solo 1765).

[11] Imm. Kant, Critica della ragion pura, del 1781 (A 421 ss.) e del 1787 (448 ss.).

[12] Già Aristotele osserva che non potremmo avere una scienza se non sulla base della percezione sensitiva. La dottrina di Kant che noi siamo sottomessi a una "apparenza trascendentale", effettuata da un "influsso inavvertito della sensitività sull'intelletto", A 293 ss. / B 349 ss., resta una mera affermazione, contro la nostra coscienza naturale reale che ci testimonia l'esistenza indipendente delle cose in sé, non oggetti-fenomeni, costituiti dalla "coscienza trascendentale".

[13] Critica della ragion pura, A 426 / B 454 ss.

[14] Ibidem, A 427 / B 455 ss.

[15] Andrea Gentile, Ai confini della ragione. La nozione di "limite" nella filosofia trascendentale di Kant, Roma (Ed. Studium) 2003.

[16] Loc. cit., II. cap.: "La determinazione dei 'limiti' della 'ragion pura'", 54 ss.

[17] Tale intuizione che condurrebbe in un intuizionismo Kant ha respinto giustamente nel suo tardo scritto: Von einem neuerdings erhobenen vornehmen Tone in der Philosophie, del 1796.

[18] A342 / B 400 et passim.

[19] Questa scissione è di origine (neo)platonica e radicalizza ancora la separazione tra mondo sensibile e mondo intelligibile, tra fenomeno e noumeno.

[20] A questo tema si dedica, in modo storico e sistematico, il mio trattato: Sein und Bewußtsein. Erörterungen zur Erkenntnislehre und Metaphysik in einer Gegenüberstellung von Aristoteles und Kant, Hildesheim (Olms Verlag) 2001.


(Pont. Univ. Lateran.)
Aquinas 47 (2004), 641-652
Prof. Horst Seidl.

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