Thursday, August 25, 2005

Dagherrotipia, calotipia, ambrotipia, ferrotipia

Dagherrotipia, calotipia, ambrotipia, ferrotipia occupano un posto di particolare interesse nel campo del collezionismo delle fotografie d'epoca e meritano di essere separatamente considerate. Tutte queste forme di rappresentazione si affermano in gran parte grazie al favorevole atteggiamento della borghesia in ascesa, molto disponibile verso tutto ciò che può essere in grado di nobilitarla. La raffigurazione personale, fino ad allora privilegio dei nobili e dei ricchi mercanti, diventa ragionevolmente accessibile a tutti quelli che non sono nella condizione di dover lottare quotidianamente per la sopravvivenza. Il materiale costoso e le raffinate manipolazioni che il processo dagherrotipo richiedeva non resero comunque mai veramente popolare questa tecnica e il possesso di un tale ritratto equivaleva alla proprietà di un vero gioiello, quasi pregevole come la miniatura.


La confezione della dagherrotipia è quasi sempre elegantissima; essa si presenta, per lo più, come un astuccio di legno lavorato a rilievo, spesso ricoperto di pelle con impressioni raffiguranti volute e fiori. L'antina di sinistra, quando ancora esiste, è foderata di velluto, solitamente rosso, lavorato con disegni di fantasia. L'immagine è incastonata sulla destra, racchiusa in una cornicetta di rame a sbalzo; sotto al primo vetro è generalmente presente un'altra lastrina dorata che funge da passe-partout. Ricordiamo che qualsiasi tentativo di apertura dei sigilli di cui sono muniti i vetrini è destinato a provocare la rapida ossidazione della superficie argentea; d'altra parte nessuna pulizia è consigliabile, dato che anche un fiocco di cotone produce rigature vistose pur se usato con cautela. L 'immagine dagherrotipica è costituita da una lastrina di rame perfettamente spianata ed argentata su cui zone di opacità biancastra determinano l'immagine.
Il ritratto, poiché quasi universalmente di questo si tratta, è in genere ritoccato con pochi lievi colori dati a mano. Le dagherrotipie non sono praticamente mai firmate e solo raramente il fotografo faceva apporre un'impressione in oro sul dorso dell'astuccio. L'abituale impossibilità di identificare l'autore è comune a tutte le opere fotografiche di questo periodo pionieristico.
Esistono anche raffinatissimi medaglioni che le signore portavano al collo e dagherrotipie, queste meno interessanti dal punto di vista estetico, montate come quadretti da appendere. L'enorme complessità della realizzazione, la difficoltà del reperimento dei materiali adatti, l'ardua tecnica richiesta, costituiscono la migliore garanzia di autenticità e rendono praticamente impossibile l'esecuzione di falsi che non potrebbero assolutamente risultare remunerativi. Le imitazioni stesse, a questo punto, non sarebbero indegne di una collezione.
L'anno ufficiale di nascita della dagherrotipia è il 1839, in seguito all'annuncio della scoperta di Louis Jacques Mandé Daguerre, che venne pubblicamente spiegata dallo scienziato Arago il 19 agosto.


La lastrina di rame argentato veniva pulita e lucidata con pazienti procedimenti manuali e sensibilizzata attraverso l'esposizione ai vapori di iodio; questo trattamento andava a formare un leggero velo opaco di ioduro d'argento caratterizzato dalla proprietà di essere fotosensibile. La lastra veniva preparata nel buio quasi assoluto ed osservata di tanto in tanto, finché assumeva una colorazione dorata.
A questo punto era pronta per essere inserita nella camera oscura, che da questo momento si avvierà a diventare una vera macchina fotografica. L'esposizione veniva valutata ad esperienza e durava un tempo che, anche in giornate di sole e servendosi dei migliori obiettivi allora disponibili, durava comunque alcune decine di secondi. Fu solo con il perfezionamento del processo di Daguerre, con la sensibilizzazione al cloro (Claudet) e l'uso del bromo, che fu possibile eseguire ritratti nitidi e con gli occhi dei soggetti aperti. Una certa immobilità era comunque sempre richiesta e le immagini che ci sono rimaste testimoniano spesso la tensione delle persone che si facevano riprendere. Ricordiamoci pertanto che la ieraticità era una condizione necessaria piuttosto che una scelta deliberata. La dagherrotipia era comunque ben più sopportabile delle interminabili sedute imposte dalla raffigurazione pittorica. Lo sviluppo della lastrina veniva effettuato con l'azione dei vapori di mercurio che producevano una patina chiara nei punti colpiti dalla luce, l'appannamento dello ioduro nelle zone rimaste più in ombra veniva eliminato con un lavaggio in acqua calda salata, presto sostituito dal fissaggio in soluzione di tiosolfato di sodio (iposolfito). L'effettiva visione della figura è possibile solo orientandosi in modo che sulla superficie speculare si rifletta qualcosa di oscuro, in caso contrario si osserva una sorta di negativo. La tecnica ottico-chimica impiegata fa sì che il dagherrotipo sia sempre esemplare unico. In Italia è piuttosto difficile reperire pezzi di origine sicuramente nazionale, dato che gli antiquari trovano più comodo acquistare in Francia o in Inghilterra dove l'offerta è certamente meno limitata.
Per quanto riguarda le possibilità di restauro delle dagherrotipie è bene ribadire che è preferibile astenersi da qualsiasi intervento a meno che la situazione sia talmente compromessa da non consentire alternative.
A questo proposito si ricordi che anche il pennello più morbido può essere usato per togliere impurità soltanto quando la lastra sia immersa in acqua distillata addizionata con un tensioattivo fotografico. È possibile preparare una soluzione a base di tiourea e acido fosforico in grado di togliere l'ossidazione superficiale, trattamento che scioglie un piccolo quantitativo di argento e non può perciò essere ripetuto a piacere. Prima di procedere all'asciugatura è in ogni caso necessario lavare in soluzione fresca di tensioattivo, sciacquare molto bene, sempre in acqua distillata, e terminare diluendo qualche goccio di alcool etilico (non quello colorato per usi sanitari) oppure metanolo. Terminiamo ricordando, a chi fosse tentato di rispolverare questo procedimento, che le sostanze usate per la sensibilizzazione e lo sviluppo sono particolarmente tossiche e la loro incauta manipolazione può produrre danni alla salute, come sperimentarono anche i primi dagherrotipisti.
http://www.gri.it/storia/

Gli ambrotipi si diffusero in alternativa alle immagini dagherrotipiche negli anni che precedettero l'affermarsi del processo negativo-positivo e, conseguentemente, della stampa su carta.
Si trattava di immagini dirette ottenute su un supporto in vetro. Le dimensioni erano generalmente simili a quelle di una dagherrotipia e il costo risultava competitivo, dal momento che la dagherrotipia era realizzata su lastre ben più costose di rame argentato.


Il processo ambrotipico produceva una sorta di negativo sottoesposto. Per ottenere l'apparente inversione dei toni dell'immagine si procedeva allo schiarimento delle zone impressionate in modo simile alla dagherrotipia. La visione risultava più agevole, dal momento che non era richiesto un particolare angolo di osservazione e di incidenza della luce, tuttavia il risultato era comunque di scarsa luminosità e basso contrasto.
I toni chiari risultano alla visione sostanzialmente dei grigi. Per ottenere le ombre e i toni neri, sul retro della lastra ambrotipica veniva stesa una laccatura nera oppure si disponeva un panno o una carta nera. Accadeva così che le parti non impressionate, e quindi trasparenti, mostrassero direttamente il nero, mentre le parti impressionate, costituite da argento metallico scuro, venivano chimicamente schiarite, generalmente con l'azione di vapori di mercurio.


Questo procedimento, più economico della dagherrotipia, venne applicato solo quando si riuscì a sfruttare un'emulsione in grado di ricevere gli alogenuri d'argento (insolubili in acqua) che presentasse anche un'adesività permanente su una superficie liscia e antiadesiva come quella del vetro. Risolto il problema di stendere materiale sensibile su lastre di vetro, obiettivo ottenuto grazie all'albume e, in seguito, con altri materiali collosi di origine generalmente animale, per giungere infine al collodio... non esistevano altri ostacoli da superare per giungere direttamente alla stampa di positivi su carta partendo da un negativo su lastra in vetro.
L'ambrotipia non è infatti altro che un negativo debole su lastra in vetro, negativo che ha subito un processo di schiarimento chimico.
La concorrenza che l'ambrotipo sviluppò nei confronti della dagherrotipia fu fondata, oltre che sulla convenienza, sull'apparenza lucida del vetro e sulla possibilità di applicare ritocchi manuali con vernici e aniline sul verso della lastra. La soluzione tecnologica costituita dall'ambrotipo consentiva montaggi e presentazioni di tipologia simile a quelle del dagherrotipo, fratello maggiore e più pregiato con cui doveva confrontarsi. Tuttavia, come detto, la tecnica da cui nasceva, portava con sé i motivi stessi del declino e della rapida scomparsa di una tipologia fotografica rapida nella realizzazione ma di discutibile resa in termini di contrasto e visibilità.
Presto si preferì utilizzare le lastre in vetro albuminato direttamente per realizzare negativi corretti ed adatti alla stampa di positivi su carta. Gli ambrotipi mantennero un certo periodo di favore popolare per circa un decennio, tra gli anni della matura affermazione del processo dagherrotipico e i primi anni delle lastre alluminate destinate alla produzione di stampe positive su carta. La loro conservazione nel tempo risultò piuttosto critica, a causa del supporto su cui venivano realizzati. Decenni di vita, con i conseguenti spostamenti e stress meccanici hanno causato la distruzione o la scheggiatura degli esemplari, per cui il reperimento di copie ambrotipiche non è molto frequente.
Gabriele Chiesa
La dagherrotipia venne accolta con favore dalle classi in ascesa che riconobbero nella lastrina di rame argentato un supporto sufficientemente degno per la loro immagine. Allo stesso modo, la confezione elegante dell'ambrotipia non fece rimpiangere la presentazione delle miniature. Bisognava però che anche gli strati sociali più bassi fossero messi in grado di farsi ritrarre perché la grande rivoluzione democratica della fotografia potesse dirsi completata.

Uno degli strumenti privilegiati della divulgazione popolare si dimostrò essere la ferrotipia. Questa tecnica nacque in America e si diffuse, affermandosi rapidamente, anche in Europa.
L'identificazione del processo richiede qualche chiarimento; avviene infatti che lo stesso termine indichi tecniche diverse tra loro. La ferrotipia vera e propria venne messa a punto da A.A. Martin nel 1852; egli utilizzava una lastrina di metallo annerita e ricoperta di collodio umido. II processo originario, presto migliorato da Monckhoven, era noto anche come melainotipia. Successivi perfezionamenti vennero apportati nel 1856 da un altro Americano, Hannibal L. Smith, che chiamò tintipia la sua invenzione; questo è il nome che nei paesi anglosassoni definisce la stampa su lastrina di ferro.

Per aumentare la confusione bisogna aggiungere che lastre laccate per ferrotipia vennero impiegate anche per smaltare stampe su carta, comprimendole e facendole asciugare contro la superficie liscia; tali stampe vennero perciò da qualcuno impropriamente chiamate ferrotipiche.
In sostanza i vari procedimenti si riducono all'·inversione· apparente dell'immagine direttamente impressionata sulla lastra; si tratta quindi di un positivo ottenuto in copia unica, proprio come I'ambrotipia e la dagherrotipia. I lati della fotografia appaiono perciò invertiti. L 'insistenza che diversi fotografi dimostrarono nella ricerca di sistemi che consentissero di ottenere immediatamente un'immagine positiva è giustificata dalle richieste dell'utenza.


Per i clienti la fotografia si esauriva (e molti la pensano così ancora oggi) nell'atto della ripresa; le operazioni successive, considerate una perdita di tempo, costituivano un ostacolo obiettivo al consumo. Perché questa sorta di polaroid ottocentesca impiegava proprio il ferro quando erano noti sistemi sostanzialmente equivalenti, che impiegavano la carta, fino dal 1839 (H.Bayard)? Probabilmente i fattori di ordine psicologico hanno giocato un ruolo non irrilevante. 

Nel secolo delle invenzioni e del trionfo del progresso, il ferro costituiva un simbolo di tutti i vantaggi della tecnologia e nel contempo offriva garanzie di resistenza apparentemente valide. In realtà, la plasticità e l'ossidabilità di questo materiale hanno condannato ad una rapida distruzione le enormi quantità di immagini che furono prodotte con tale processo nell'arco di una quarantina d'anni dal momento della sua scoperta.
Quando la lamina viene incurvata per una causa qualsiasi è relativamente facile che si stacchino scaglie di lacca; frequentemente il collodio si fessura minutamente e I'aria e I'umidità penetrano innescando pericolosi processi di ossidazione.
Anche la laccatura del dorso si è dimostrata spesso insufficiente a prevenire la ruggine. Bollicine, rigonfiamenti, screpolature, sono I'aspetto abituale delle rare ferrotipie che sono sopravvissute.
La ferrotipia, grazie alla rapidità e all'economia del processo, rimase comunque, per alcuni decenni, il cavallo di battaglia di molti fotografi ambulanti. Costoro giravano di fiera in fiera allestendo il loro "studio" agli angoli delle strade e nelle piazze: un lenzuolo bianco alle spalle dei soggetti ed una seggiola impagliata ne costituivano lo scarno arredamento.


Dato che la clientela era costituita evidentemente da gente di passaggio, la caratteristica più importante che I'immagine doveva possedere era quella di essere immediatamente disponibile. La qualità dell'illuminazione era quella che le condizioni meteorologiche rendevano possibile, il fondale bianco di cui si è detto serviva per aumentare il rilievo dell'immagine. Siamo qui ben lontani dai margini di intervento di cui godevano i più noti professionisti: negli ateliers un complesso sistema di tendaggi consentiva di regolare con precisione la luce proveniente dalle ampie vetrate disposte lungo le pareti e il soffitto.
II procedimento ferrotipico, non era in grado di fornire bianchi puri, il contrasto ottenibile era perciò piuttosto insoddisfacente; la mancanza di profondità di queste riprese era poi aggravata dall'assenza di quegli accessori scenografici a cui I'ambulante doveva rinunciare per ovvi motivi di peso e d'ingombro. D'altra parte, contadini, piccoli commercianti, mediatori e artigiani si accontentavano facilmente, soddisfatti della sola idea di possedere comunque un ritratto. 

Oltre che nei mercati paesani la ferrotipia venne praticata con un certo successo da alcuni professionisti che operavano stagionalmente presso note località di cure termali (soggiornare al mare per prender bagni era ancora prematuro). La rapidità di consegna era anche in questo caso il fattore determinante.
La ferrotipia si presenta prevalentemente con fondale chiaro ma si conoscono anche rari esemplari con sfondo dipinto; in non pochi casi essa è coperta da una coloritura superficiale, applicata per vivacizzare il contrasto e dare più rilievo al ritratto. Sembra che questa tecnica non sia mai stata utilizzata per riprendere panorami anche se eccezionalmente è stata impiegata in esterno per ritratti informali (senza il solito lenzuolo).

Quasi tutte le immagini realizzate in ferrotipia risultano anonime, la raffigurazione è di gusto molto popolare e la gente che vi compare è abbigliata in modo più grossolano di quanto lo fossero i clienti dei fotografi di città (che peraltro disponevano a volte di un guardaroba per il noleggio, adatto a favorir menzogne sulle condizioni sociali dei soggetti). In molte zone agricole questa fu la prima applicazione della fotografia ad essere conosciuta direttamente.
Gabriele Chiesa
Accanto alla dagherrotipia furono eseguite, partendo dal 1841 (brevetto della calotipia) e per una quindicina d'anni, riprese con negativo su carta.


Tale tecnica è fondamentale dal punto di vista storico perché segna I'inizio della fotografia intesa come possibilità di moltiplicazione delle immagini da un 'unica matrice.

Dal punto di vista collezionistico questa radicale innovazione rappresenta però un vero enigma. Costretti a considerare solo la stampa finale, dato che il negativo è normalmente irreperibile, non è per noi possibile riconoscere con ragionevole sicurezza il metodo di ripresa. È perciò spesso impreciso parlare di calotipia, quale che sia il positivo nelle nostre mani. È bene chiarire che esistono sostanzialmente tre diverse tecniche con negativo su carta.
La prima è la calotipia propriamente detta, così denominata da Talbot che si riferì alle parole greche kalos, bello e typos, stampa. Talbot stesso apportò diverse modifiche alla preparazione di questo rudimentale negativo, a partire dalla spalmatura di cera per rendere più trasparente la matrice.
II procedimento di Blanquart Evrard, più complicato perché impiegava carta umida, ma capace di accorciare considerevolmente i tempi di esposizione.
II procedimento di Le Gray, che forniva un materiale poco sensibile ma più preciso nella riproduzione dei dettagli.
Gli originali di questi diversi sistemi non sono tra loro molto diversi e, quel che più importa, non esistono possibilità pratiche di appurarne I'autenticità. È perciò perfettamente legittimo parlare di calotipia solo in due occasioni: quando I'originale è allegato a documenti di accertata origine; quando il negativo è accompagnato da una stampa positiva, montata in modo inalterabile su un supporto contrassegnato (cartoncino con timbratura originale del fotografo).


I metodi che impiegavano il negativo di carta furono applicati con una certa parsimonia. II licenziatario di Daguerre a Londra, Antoine Cludet, offriva ai suoi clienti ritratti calotipici e dagherrotipie ma erano queste ultime ad essere abitualmente preferite per I'incisione, la luminosità e la preziosità.
Le stampe da negativo su carta risultavano invece più sgranate e indeterminate, per effetto delle fibre di cellulosa, che risultavano riprodotte sull'immagine finale. Maggior successo ottenne Henry Collen che effettuava però rilevanti ritocchi, tanto che in realtà si può parlare di miniature sovrapposte alla fotografia. Fatte perciò le debite eccezioni per pochi pionieri o pittori che se ne servirono per scopi artistici, utilizzando proprio la caratteristica scarsa definizione dell'immagine, la diffusione dei diversi metodi fu sempre limitata, risultando presto soppiantata dal negativo su vetro.

Eppure alcuni positivi d'epoca, in particolare quelli con data antecedente il 1860, possono presentarsi con una granulosità fibrosa del disegno, portare I'impressione di un autore che impiegò la talbotipia... Se eseguiti su carta salata ma anche sulle prime carte albuminate, potrebbero effettivamente provenire da negativi cartacei Tale ipotesi potrebbe essere avvalorata dal fatto che i soggetti raffigurati presentano le palpebre abbassate e la pupilla disegnata a mano, indice di posa molto prolungata, ma si tratterebbe solo di supposizioni. La faciloneria nell'identificazione di riprese calotipiche ha condotto, anche a livello di esperti, a prendere granchi di ragguardevoli dimensioni.
In definitiva però, ciò che veramente conta, non è tanto la tecnica impiegata per la ripresa, quanto ciò di cui siamo effettivamente in possesso.
Lo studio andrà quindi condotto sul positivo esistente valutandone gli aspetti estetici, le informazioni visive, I'origine e la datazione. È quasi impossibile che la stampa montata sia un bidone. I foglietti di carta che portano I'immagine venivano incollati sul cartoncino impiegando adesivi di particolare tenacità ed inalterabilità; qualsiasi tentativo, di distacco può essere portato a termine solo danneggiando in modo irreversibile il supporto (I'azione prolungata del vapore o dell'acqua dissolve i collanti che danno compattezza al cartone, per cui esso finisce con lo sfaldarsi).


Non dimentichiamo che distruggere il cartoncino significa praticamente dissolvere le prove dell'autenticità della stampa e renderne problematica la datazione. È possibile falsificare un'immagine su un foglietto all'albumina (ma bisogna essere già artisti) più difficile diventa rifare il cartoncino, usando materie prime identiche agli originali e copiando alla perfezione le sigle tipografiche del fotografo e le eventuali impressioni a rilievo; a questo punto, anche se per assurdo le stampe d'epoca fossero valutate decine di biglietti da mille, sarebbe più remunerativo mettersi ad imitare direttamente i biglietti di banca.
Gabriele Chiesa
Calotipia
 
Procedimento negativo-positivo messo a punto da W.H.Fox Talbot nel 1839 (data di una cominucazione alla Royal Society appena dopo la pubblicazione del metodo di Daguerre). Segue un brevetto nel 1841. Rimane in auge fino alla introduzione del collodio umido. Da molti era stimato un procedimento di qualità inferiore alla dagherrotipia perchè richiede due passaggi per ottenere una positiva e perchè la qualità è inferiore. La preparazione della carta per i negativi e le stampe è identica: fine carta da lettera viene pennellata con una soluzione di ioduro di potassio e ioduro d'argento. Lo ioduro d'argento si scioglie in ioduro di potassio concentrato formando un complesso, dal quale riprecipita ioduro d'argento quando la soluzione viene diluita. La carta così preparata può venire seccata e sensibilizzata in un secondo tempo con una miscela di nitrato d'argento, acido gallico e acido acetico. Il negativo richiede un'esposizione di alcuni minuti in piena luce, e viene sviluppato in una soluzione simile a quella usata per la sensibilizzazione. Per facilitare la stampa, il negativo viene reso trasparente con cera e stampato in un torchietto a contatto fino a che compare una debole immagine. Questa viene rinforzata, più che sviluppata, con la soluzione usata per la sensibilizzazione. Il fissaggio dei negativi e dei positivi avviene in una soluzione di tiosolfato di sodio, come indicato da Herschel. Nel 1844 Talbot dà alle stampe il primo libro fotografico a dispense, contenente calotipie originali prodotte in un laboratorio appositamente attrezzato per la loro produzione in serie.

http://www.fotografianegliannitrenta.com/calotipia.htm
La fotoglifia rappresenta un momento della storia della produzione iconografica. Nasce dall'esigenza di giungere a produrre immagini stabili che possono essere utilizzate come illustrazioni.
La fotoglifia in senso stretto nasce precisamente il 22 ottobre 1858, annunciata da Talbot attraverso un articolo del "The Photographic News". William Henry Fox Talbot è conosciuto universalmente come uno dei padri della fotografia. Inventore della tecnica calotipica e, in collaborazione con Sir John F. W. Herschel, della fotografia ottico chimica contemporanea, con i fondamentali processi di fissaggio e di trattamento negativo- positivo.
Egli si era già cimentato nella soluzione dei problemi correlati a produzioni quantitativamente apprezzabili di stampe fotografiche. Aveva addirittura intrapreso la pubblicazione di libri illustrati fino dal 1844 con "The Pencil of Nature". Aveva però dovuto impiegare sei dipendenti per più di un mese, per riuscire a stampare solo un migliaio di copie del libro.
L'aspirazione era quella di giungere a una tecnologia che permettesse una produzione commercialmente interessante, anche se non propriamente industriale in senso esteso. La tecnica fotoglifica si fonda sulla proprietà del bicromato di potassio di divenire insolubile se esposto alla luce.
Ecco in dettaglio il processo originario di Talbot.
La gelatina sensibile di bicromato di potassio veniva stesa su di una lastra di rame. L'impressione fotografica veniva ottenuta con un positivo trasparente posto a contatto. Dopo l'esposizione, e senza procedere alla soluzione della gelatina solubile, si cosparge della gomma coppale sulla lastra, in modo da ottenere una granitura da acquatinta. La polvere di coppale va fatta fondere ed aderire alla superficie. La lastra va poi incisa con una soluzione di cloruro ferrico. La soluzione ferrica penetra in relazione alla densità incontrata e si ottiene così una sorta di lastra da stampa ad intaglio, coperta da piccolissimi incavi di profondità differenziata. Questa matrice viene utilizzata per la stampa ad inchiostro.
La qualità dei risultati di questa tecnica è piuttosto limitata ed è caratterizzata da una evidente disuniformità in zone di luminosità equivalente. Questa ed altre caratteristiche conducono a supporre che le stampe "photoglyphe" in possesso del Museo Ken Dami non siano esattamente propriamente delle fotoglifie.
Il termine fotoglifia è stato infatti spesso utilizzato in senso lato per riferirsi a tutti quei procedimenti di stampa in serie non strettamente fotografici che hanno preceduto la fotoincisione. La fotocalcografia, la collotipia e le loro variazioni sono per molti versi simili alla fotoglifia e con questa sono spesso stati confusi. Le stampe del Museo Ken Damy mostrano invece caratteristiche proprie della woodburytipia (1864, dal nome dell'inventore Walter B. Woodbury). Questa tecnica non mostra infatti né grana né retino e risulta sorprendentemente simile a una stampa all'argento. Sul supporto viene trasferita una gelatina pigmentata. La curva tonale caratteristica della gelatina bicromata fornisce un'accurata e progressiva traduzione della scala delle densità, per cui le ombre risultano profonde ma trasparenti e modulate. Tuttavia non si conoscono woodburytipie di dimensioni superiori al 25x35 cm, a causa della pressione necessaria per l'impressione (la misura normale è 19,5x22,5).
Le stampe eseguite in woodburytipia appaiono su un supporto di carta sottile di comune uso fotografico, montata su cartoncino, ritagliate sui bordi (come si faceva appunto per eliminare le sbavature della pressa) e sembrano calandrate.
Di questo procedimento si ebbe grande ricchezza di variazioni : fotoglifia, fotoplastografia e stampa fotoglittica.
Il termine "photoglyphe" venne usato frequentemente per sfuggire al versamento di particolari diritti di brevetto.
La stampa fotoglittica, come pure la woodburytipia erano più costose delle stampe ad inchiostro perché utilizzavano la gelatina fotografica (anche se unita a pigmenti e non direttamente impiegata per caratteristiche di fotosensibilità). Il primo in Francia a rilevare il brevetto di Woodbury fu l'editore Goupil, che lavorò ad Asnières dal 1870. Egli dichiarò comunque, come testimonia il giornalista Gastone Tissandier, di lavorare in fotoglifia ; lo stesso giornalista parla di una produzione settimanale di 10.000 stampe.
La fotoglifia, per quanto apparentemente simile alla fotografia propriamente detta, rimane un metodo fotoindustriale a produzione limitata e storicamente antecedente alla tradizionale fotoincisione.
Gabriele Chiesa

Stereoscopia
La fotografia stereoscopica consiste in una ripresa e successiva restituzione effettuata in analogia del sistema binoculare umano. Si tratta in pratica di realizzare due diverse immagini da punti di ripresa diversi, ma sul medesimo asse e opportunamente scostati. Così come noi siamo in grado di rilevare la profondità grazie alla contemporanea visione e confronto delle due immagini che ci giungono dagli occhi, così anche la fotografia effettuare due differenti riprese che contengono informazioni solo parzialmente coincidenti (in quanto disallineate). Se poi osserviamo contemporaneamente le due riprese, ma separatamente l'immagine di sinistra con l'occhio di sinistra e l'immagine di destra con l'occhio di destra... saremo in condizione di ripristinare il normale meccanismo di visione e di valutazione delle distanze cui siamo abituati.
Per la stereoscopia italiana si veda l'apposita sezione dedicata alla storia della stereoscopia in Italia.


Esempi di immagini stereoscopiche
in visione bidimensionale
Cliccare su un'immagine per ingrandirla e sfogliare tutta la serie.

Per l'osservazione tridimensionale si veda la sezione degli anaglifi
(per la visione della quale è indispensabile l'impiego degli appositi
occhialini con filtro rosso-verde oppure rosso-azzurro)


L'osservazione delle fotografie stereoscopiche avviene però a distanza ravvicinata, mentre i soggetti rappresentati richiedono una "messa a fuoco" a distanza decisamente maggiore. Ciò richiede l'impiego di lenti appositamente realizzate e in grado di restituirci l'impressione di osservare con l'appropriata messa a fuoco ed angolazione oculare.
La tecnica stereoscopica prevede quindi l'impiego di apposite macchine in grado di effettuare la doppia ripresa corrispondente al punto di vista dei due occhi (o di due riprese in sequenza e disassate orizzontalemente) e di un apposito sistema di visione che fornisca a ciascun occhio la visione individuale e soggettivamente corretta della sola immagine che gli compete.
La percezione tridimensionale complessiva viene elaborata dal cervello, che fonde ed analizza le informazioni seguendo i meccanismi di percezione che gli sono consueti e che l'esperienza ha rafforzato. Ciascun osservatore effettua questi processi di visione attivando i percorsi di rilevazione della realtà che ha personalmente elaborato. La coscienza di osservare un oggetto vicino e la tendenza a razionalizzare l'osservazione effettiva dell'immagine in un contesto artificiale rende a molte persone molto difficoltosa la visione. Si tratta di sviluppare un certo adattamenti in modo che gli occhi si abituino alla lettura della figura tridimensionale.
In ogni caso la scansione dei vari piani non risulta continua come nella realtà. I soggetti osservati appaiono come stampati su successivi livelli di profondità , quasi fossero figurine ritagliate e poste a distanze diverse.
Studiosi di varie epoche si sono occupati della percezione umana delle distanze, a tale proposito i primi contributi sono stati forniti addirittura ancora da Euclide e da Leonardo, forse il primo a considerare scientificamente la visione binoculare.
Il fisico inglese Sir Charles Wheatstone è comunque il primo scienziato che sviluppa approfonditi studi specifici sull'argomento, giungendo nel 1832 alla realizzazione di un sistema ottico in grado di rendere la visione tridimensionale. Con un apposito visore è così possibile osservare disegni con l'effetto di rilievo in epoca prefotografica. Le due immagini devono però ancora essere realizzate con estrema perizia a mano e solo con l'invenzione della fotografia si giunge all'applicazione matura della stereoscopia.
L'invenzione ottica di Wheatstone viene perfezionata ed adattata alla nascente fotografia da Sir David Brewster che realizza il primo stereoscopio nel 1849. Le lenti di osservazione si trovano appunto alla medesima distanza degli occhi, le riprese vengono effettuate con lo stesso criterio.

L'invenzione venne in seguito perfezionata con il contributo di diversi scienziati ed ottici francesi, fino a giungere alla presentazione di uno stereoscopio per dagherrotipie in occasione dell'Esposizione Universale di Londra del 1851.
La stereoscopia era a quel punto ormai matura per essere sfruttata commercialmente. Il londinese John Benjamin Dancer iniziò nel 1853 la produzione di visori e di collezioni di stereoscopie. Il successo fu subito lusinghiero e la moda della stereoscopia si diffuse rapidamente in tutta Europa.
A Parigi diversi produttori realizzarono raccolte di stereoscopie su tematiche molto diversificate e i visori entrarono in tutti i salotti della nobiltà e della borghesia. La riproduzione delle immagini non poteva ancora contare sulla stampa ad inchiostro su carta e la fotografia era ancora l'unico modo per diffondere rapidamente la visione di soggetti e luoghi lontani o inconsueti.
Questo strumento ottico consentiva di avere una vivida visione di panorami, monumenti, opere d'arte, architetture, personaggi... di cui solo pochi privilegiati potevano avere diretta esperienza.
La produzione di stereoscopie divenne così un fenomeno industriale di vaste proporzioni, rafforzato dall'evolversi della tecnologia fotografica.
Le stereoscopie sono state realizzate sostanzialmente seguendo tre tipologie di produzione: opache, semitrasparenti e trasparenti.

Nel primo caso si tratta di immagini fotografiche montate su cartoncino e da osservare per normale riflessione. Nel secondo caso, le stampe sono su carta molto leggera e montate su telaio in cartoncino, in modo da lasciare passare la luce dal dorso; sul verso risultano colorate, così che l'osservazione in luce diffusa permette di avere un effetto cromatico più gradevole ed apparentemente realistico. Infine, le stereoscopie su supporto trasparente sono realizzate direttamente su lastrine di vetro con emulsione fotosensibile; anche queste ultime possono essere colorate manualmente e l'osservazione per trasparenza ne rafforza l'impressione di tridimensionalità.

Qui è riprodotta una delle immagini singole che appartenengono alla stereoscopia precedente, l'osservazione è però qui per trasparenza. Il dorso fotografico della sottile carta di stampa è stato dipinto ad aquarello. Questa particolare lavorazione non costituiva un prodotto di tipo artistico, in quanto veniva svolta in serie da gruppi di operaie presso lo "Stbailimento Fotografico". Ogni operaia provvedeva a colorare con pochi tratti le zone della medesima tinta e passava poi alla compagna la stereoscopia per la prosecuzione del lavoro.

Ancora un dettaglio dell'immagine precedente, che permette di evidenziare una particolare lavorazione a punta di spillo. Si trattava di ottenere piccolissimi fori in corrispondenza dei punti luce (fiammelle di candele, luci di abbellimento, riflessi, ecc...). L'osservazione in semitrasparenza della stereoscopia restituiva la sensazione di punti particolarmente brillanti e luminosi in corrispondenza dei forellini, rafforzando l'effetto di vivida presenza del soggetto rappresentato.
In epoca moderna sono state realizzate anche immagini tridimensionali su materiale diapositivo; i dischi e i visori "View Master" appartengono ancora all'esperienza e ai ricordi dei meno giovani.


Anaglifia
Un'applicazione stereoscopica particolare è costituita dagli anaglifi, termine che trova la sua origine nelle voci greche "ana" - sopra - e "glifo" - impressione.
Si tratta di una coppia stereografica restituita sul medesimo supporto. In pratica l'immagine di sinistra e di destra vengono stampate insieme ma con inchiostri di colore complementare.

L'osservazione va effettuata con occhiali dotati di lenti colorate e adatte a filtrare la figura riflessa con l'appropriato colore. Se le due immagini sono state stampate rispettivamente in rosso e verde, l'occhiale di visione avrà appunto una lente rossa e una verde, così che ogni occhio vedrà l'immagine che gli compete, risultando oscurata dalla filtratura quella che non deve percepire.
La percezione d'insieme delle due figura sarà ricostruita dal cervello come un'unica raffigurazione in toni di chiaroscuro. Occhialini con la coppia rosso-verde e rosso-azzurro sono stati utilizzati anche nel corso di recenti campagne promozionali o proposti come trovata ottica, in abbinamento ad anaglifi, talvolta con intenti collezionistici. Si tratta tuttavia di curiosità che trovano una limitata diffusione solo presso una ristretta schiera di amatori.
Chi fosse in possesso di questo genere di occhialini è in condizione di visualizzare le immagini presentate nella sezione dedicata all'anaglifia su questo sito web.
Approfondimenti sulla stereoscopia sono disponibili nell'apposita sezione dedicata alla storia della stereoscopia in Italia.

Gabriele Chiesa

1 comment:

educatore said...

Mi accorgo solo ora, dopo anni dall'inserimento.... che questo post è realizzato copiando interamente i miei testi protetti da copyright. Hai indicato la fonte... Almeno questo mi sta bene! :-) ;-)

Dopo anni di studi e ricerche, ho realizzato un libro di cui sono veramente soddisfatto: "Il ritratto fotografico nell'Ottocento - dagherrotipia, ambrotipia e ferrotipia". Disponibile su www.lulu.com